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"I see you clearly"

  • Writer: Antonella Gagliardi
    Antonella Gagliardi
  • Jan 17
  • 2 min read

Updated: Jun 28

È desiderio anziché bisogno. È l'ennesima prima volta, piuttosto che l'ultima. È la volta dell'unico, il cui sapore con gli anni si dissolve tra mille abitudini, esperienza e amore per la routine. È incertezza piuttosto che controllo. È ora anziché tra 10 anni. È ciò che hai di fronte piuttosto che più bello o più brutto. È illusorio ma anche un esercizio di immaginazione. È un potenziale incontrollabile che può essere deciso solo dalla natura di chi vi partecipa, e non dall'insieme delle coscienze. Ogni parola che mi viene in mente, speranza, sognare, amare, non è adatta, forse anche a causa del loro abuso. Non si lega a nessuna azione, parola o persona altrui, e ancor meno ai miei pensieri. Può durare solo un attimo, quasi come se non fosse mai esistito. E sappiamo che non può restare, sostituito per abitudine o default da concetti, le idee e il catalogo di emozioni tutte da indovinare. Compiti a casa da fare. E così ti metti al lavoro: elabori, studi, categorizzi, prendi nota, colleghi, mappi, ripeti, applichi, rifletti e riapplichi. E cominci a razionalizzare le tue conclusioni:


È curiosità. Curiosità di vedere cosa è cambiato, di scoprire se l'intuito funziona ancora, o forse solo di sapere com'è fatto. Curiosità di capire se ci azzeccherai, se passerai il test che pensavi di aver voluto fare. Cerchi le informazioni evidenti: ci sono i motivi, le statistiche, la conoscenza – anche se elementare – dei modelli di pensiero. C'è l'attenzione al dettaglio, i sensi, le sensazioni. Ci sono gli atlanti e i contenuti multimediali che si adattano all'evoluzione del tuo sistema dopaminergico. Ed ecco che l'ennesima – o forse la stessa – missione di districare la complessità umana si ripresenta. La sfida è troppo allettante per ignorarla. È quello che conosci, il fardello che credi di dover portare per completare la tua missione più grande. Una ricerca etnografica covert che dura una vita.

Esame superato?


Poi inevitabilmente osservi come tutto si evolve, perché si tratta, come dicevamo, di un potenziale incontrollabile. Ti chiedi se questo o quello, se brutto o buono, se io o l’altro, se questo allora quello — metadomande e peccati. Dimentichi, però, che è semplice natura: la natura di inseguire ciò che desideriamo e come lo desideriamo. [Ma dove finisco io e inizia l'altro?] È quella stessa natura che cerchiamo di spiegare, interpretare, definire, contenere. Troppo semplice per essere davvero compreso da un adulto, ma allo stesso tempo troppo complesso per essere gestito con la familiarità con cui l'umano medio affronta la propria vita.


Per poter accettare ciò che è, dovremmo quindi rinunciare a una parte della nostra identità, quella che ci definisce, che ci categorizza come buoni o cattivi. È così che eravamo destinati ad evolverci? Destino? Domanda stupida. In fin dei conti, la nostra evoluzione emotiva è stata plasmata dalla necessità e dalla convenienza, come risposta adattiva alle sfide della sopravvivenza e al bisogno di cooperazione. Vedersi non ci appartiene, e forse è arrivato il momento di smettere di dire il contrario.


Concludo con il principio di umanità di Kant, che riassume ciò che credo di aver voluto dire: "Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo."




 
 
 

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